La classe dirigente e lo schema di Ponzi

Questo pezzo è stato pubblicato su Il Tirreno, p.1 e 17, del 25 luglio 2012 (con un titolo leggermente diverso, ma il mio mi piaceva di più)

Ogni generazione si lamenta dei più giovani. Non sono certo all’altezza di chi li ha preceduti. Non hanno spirito di sacrificio e senso di responsabilità. Non hanno i fondamentali giusti. Tra vecchietti ci diciamo “ai nostri tempi era diverso”!

Credo invece sia vero il contrario.

Consideriamo la classe dirigente in coorti di una decade. Il miglioramento medio è stato impressionante. I quarantenni della nostra classe dirigente hanno qualità superiori ai cinquantenni, che a loro volta superano i sessantenni, che lasciano buoni ultimi i settantenni. Ho grandi speranze per i trentenni, ma sono ancora troppo pochi per fare un discorso generale.

La mia tesi e l’abbaglio della vulgata comune si spiegano considerando tre motivi:

  1. L’educazione generale della popolazione è migliorata moltissimo. In Italia, secondo il rapporto 2011 “Education at a glance” della OCSE, il 70% dei trentenni contro il 37% dei sessantenni ha terminato le scuole superiori, il 20% dei trentenni rispetto al 10% dei sessantenni ha conseguito una laurea. Questo allargamento della base da cui emerge la classe dirigente abbassa il livello medio – causando l’abbaglio di cui sopra – ma alza il livello di picco. È una legge di natura generale, nella fisica statistica e nel calcio, che se si aumenta la popolazione di partenza le eccellenze migliorano. È più facile trovare 11 grandi campioni di calcio in Italia che in Norvegia.
  2. L’ingresso delle donne in professioni da “classe dirigente” ha praticamente raddoppiato la dimensione dell’insieme tra cui selezionare, ancora migliorando la qualità del picco.
  3. La classe dirigente è cresciuta numericamente meno della popolazione, e in certi casi è addirittura diminuita. Per esempio, in molte grandi aziende negli ultimi anni il ricambio dei dirigenti è stato solo parziale, e il numero complessivo è dunque rapidamente calato.

Non pretendo di aver fornito una dimostrazione, ma vi propongo un test: prendete una qualunque professione di rilievo che conoscete da vicino, e considerate a parità di ruolo la qualità professionale media nelle diverse fasce di età.

Due regole: a) valgono solo casi in cui l’insieme di partenza sia abbastanza grande da consentirci di evitare gli aneddoti; b) si devono confrontare persone di ruolo paragonabile, quindi è normale che a decadi più anziane corrispondano insiemi più numerosi.

Consideriamo ad esempio i dirigenti d’azienda. Fate riferimento a una grande azienda italiana, quella che volete purché fornisca un campione ampio e purché la conosciate almeno un po’ dall’interno. Ora confrontate la qualità media delle diverse decadi. Non temo di essere smentito dicendo che la qualità media dei settantenni (ormai in pensione, ma possiamo usare la memoria) sia mediamente più bassa di quella dei sessantenni, che sono peggio dei cinquantenni, fino a raggiungere il massimo nei quarantenni. E stanno crescendo dei trentenni fortissimi.

Ora prendete i medici ospedalieri. Ora i professori universitari. I notai. Gli avvocati. Gli scienziati. I capi progetto. Gli ufficiali superiori delle forze armate. Gli imprenditori. Sfido a trovare una categoria abbastanza grande in cui questo non sia vero. In media lo è anche per i parlamentari, se considerate un campione grande e un solo “grande campione” di cui hanno buttato lo stampo.

E allora perché il paese è bloccato? Perché anche il ricambio delle classi dirigenti è bloccato?

Credo che abbia ragione Luca Ricolfi in un eccezionale articolo di un paio di mesi fa su La Stampa. È il conformismo e l’abitudine alla cooptazione che frena tutti a sfidare lo status quo. È questo perverso schema di Ponzi per cui ciascuno di pensa di essere in fila per la carriera che i più anziani hanno avuto e non vuole che qualcuno mandi tutto per aria azzerando le precedenze. Per cui un cinquantenne aspetta che il sessantenne al comando lasci, ma raramente lo sfida. Per cui sono i più giovani ad essere contro chi vuole rovesciare lo status quo, perché è dallo status quo che vogliono essere premiati.

La rinascita del Paese passa attraverso chi non accetta di stare al proprio posto. Attraverso chi fa saltare l’illusione stessa che ci sia una fila. Perché questo schema di Ponzi non funziona più, e non solo in Italia.

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Due letture interessanti sull’istruzione universitaria (online e offline)

L’argomento pare proprio caldo.

  1. Il Presidente della Stanford University, John. L. Hennessy: “Stanford University’s president predicts the death of the lecture hall as university education moves online”
  2. Breve articolo su lavoce.info di Pamela Giustinelli e Nicola Persico, sulla scelta “poco ragionata” del corso universitario. Sopratutto qui condivido il commento di Alessandro Figà Talamanca (proprio lui?), come sottolineavo anch’io in un mio vecchio post: per rendere meno irreversibile la scelta si deve disaccoppiare il primo titolo di studio dalla professione, come spesso succede negli US e in UK. Si può fare benissimo una Medical School dopo una prima laurea in Biologia, o una Law School dopo una prima laurea in Lettere. Anche per le materie scientifiche si può lavorare in questa direzione. [Perché sono così nascosti i commenti su lavoce.info?]
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La laurea e il rating degli atenei

Oggi piatto doppio: ritorno sul tema del valore legale della laurea con un articolo su Il Tirreno. Il mio titolo era lo stesso del mio vecchio post, ma il loro è migliore.

L’articolo in pdf dal giornale si trova qui, ma il testo è qui sotto.

Il Tirreno, 10 febbraio 2012

Molti hanno un’opinione perentoria sull’abolizione o il mantenimento del valore legale della laurea, nonostante il senso della questione sia veramente sfuggevole. Per esempio, a seconda di come la cosa si realizza, può diventare un’operazione di natura dirigista o liberista.

Il valore legale del titolo di studio è definito da due vincoli. Da un lato,  un’organizzazione che si voglia chiamare Università e voglia offrire un corso di studio che porti al conseguimento della “laurea”, deve essere autorizzata dal Ministero competente. Per farla semplice, deve rispettare norme sulle modalità di assunzione dei docenti, sul loro numero rispetto ai corsi di studio che vuole offrire, sulle materie previste per ciascun corso di studio. Dall’altro lato, nelle selezioni pubbliche, non si può esplicitamente discriminare i candidati in base all’Università presso la quale è stata conseguita la “laurea.”

Parlo di selezioni pubbliche per includere sia concorsi pubblici sia selezioni in aziende private basate su procedure interne condivise (molte posizioni in molte imprese medio-grandi).

Ci sono cose che non c’entrano niente con il valore legale della laurea. Anche oggi l’ente o l’impresa che bandisce una posizione può ridurre o eliminare i vincoli sul tipo di laurea, e qualunque commissione di concorso o selezionatore può decidere di non dare peso reale al voto di laurea. Sono cose che si sceglie di fare per scremare i candidati e semplificarsi il lavoro. Impedire che si possano fare è un atto dirigista, non liberista.

Ci sono anche oggi titoli che non hanno valore legale. Vengono valutati in modo qualitativo, inglobandoli nella valutazione generale del curriculum, oppure in modo forfettario. Per esempio: 5 punti per un master di almeno 12 mesi.

Ora facciamo un esperimento mentale e supponiamo di abolire il valore legale della laurea. Che succede?

Dipende. Supponiamo che il riconoscimento del Ministero sia sostituito da un accreditamento da parte di un’apposita agenzia.

Se ottenere l’accreditamento sarà difficile come ottenere il riconoscimento del Ministero, cambierà abbastanza poco.  Se invece sarà semplice, o se non sarà necessario, le cose cambieranno, perché sarà più facile creare nuove Università e offrire nuovi corsi di studio da parte di quelle che già ci sono. Non so se questo possa essere un bene o un male, però noto che le critiche al sistema universitario negli ultimi anni siano state di eccessiva offerta e fantasia nell’offerta.

L’accreditamento potrebbe poi comprendere un voto (un rating) per l’Università, e quindi stimolare ciascuna Università a cercare di conquistare – per esempio – la “tripla A”.

Vediamo la cosa da parte di chi deve assumere. Parliamoci chiaro, non è realistico che chi assume metta pubblicamente un vincolo sull’Università di provenienza dei candidati (“assumiamo solo da Università del Granducato”). Potrebbe invece mettere un vincolo sul rating dell’Università (“noi assumiamo solo laureati AAA”) oppure assumere solo laureati di Università accreditate.

In tutti questi casi, come già ora peraltro, se la commissione di concorso o il selezionatore vorranno esercitare la propria autonomia, potranno  scegliere di attribuire al rating il valore che vogliono, oppure giudicare solo in base alle prove, al curriculum o al colloquio. Se invece ci saranno norme che obbligano a usare il rating nella selezione, di nuovo avremo un’operazione in senso dirigista, invece che liberale.

Mi pare che i proponenti dell’abolizione del valore legale del titolo di studio abbiano un atteggiamento liberale e puntino a un cambio di mentalità: che piano piano il rating delle Università sia assimilato come criterio di selezione, e che contemporaneamente le Università cerchino di acquisire il rating più alto. Puntano in realtà ad abbattere il valore legale del titolo non perché sia necessario, ma perché sono convinti che altrimenti nessuno guarderà al rating.

Insomma, a me pare che non sia il caso di avere opinioni perentorie sulla questione del valore legale del titolo di studio, perché tutto dipende da se e come sarà dispiegato il meccanismo di accreditamento. A seconda dei casi, il risultato può essere gattopardesco, dirigista, liberale, o liberatutti. Guardandomi in giro, scommetterei sul gattopardo.

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Prepararsi: tipo di laurea e reddito

C’è qui un bella serie di dati sul rapporto tra tipo di “laurea” e reddito. Ho copiato la tabella in fondo al post.

Si riferiscono agli Stati Uniti nel 2010 e mostrano per ogni titolo di studio undergraduate (più o meno la nostra laurea triennale) qual è la percentuale di coloro che hanno un reddito nel primo percentile (reddito totale della famiglia maggiore di 380 mila dollari l’anno).

Attenzione, si parla di famiglie, non individui; e reddito dichiarato annuo, non patrimonio totale. Vuol dire che ci sono anche i titoli di studio posseduti da persone che magari guadagnano poco ma si sono sposate con qualcuno che guadagna molto. E che non ci sono coloro che hanno patrimonio e rendite ma non un lavoro.

Lo spaccato del top 1% mi piace perché credo che dia una buona approssimazione della classe dirigente del paese.

Andiamo alla figura: la prima colonna indica il tipo di titolo (major), la seconda il numero totale, la terza quanti del totale sono finiti nel top 1%, la quarta quanti sono coloro nel top 1% con quel titolo. La terza colonna è la quindi più importante.

Un’avvertenza: il titolo di studio undergraduate ha una correlazione spesso debole con la professione. Per esempio un medico ha fatto la Medical School ma può avere un titolo undergrad in Health, o Biology, Physiology, perché non e’ richiesto un titolo specifico. Così chi va alla Law School spesso ha un major umanistico o nelle scienze sociali. Infine, chi segue una carriera manageriale o nella consulenza fa spesso un MBA biennale dopo un titolo undergrad di tipo economico o tecnico/scientifico.

Si vede che il primo titolo di studio universitario conta poco, e che in realtà poi c’è tempo per scegliere una specializzazione e una professione come medico, legale, e in generale manager d’azienda, dove si concentra l’1% (bellissima infografica del NYTimes qui).

Invece mi preoccupano i laureati in discipline scientifiche, inclusi gli ingegneri. Anche negli Stati Uniti, dove tipicamente sono più coccolati che qui. Per gli ingegneri la correlazione tra professione e major è alta. Tipicamente prendono un titolo magistrale (master) in Ingegneria coloro che hanno un major in Ingegneria, e in misura minore in Fisica o Matematica. Nella lista c’è solo Chemical Engineering, anche perché sono state scelte solo discipline con almeno 50000 laureati.

Ho preso i dati completi e ho estratto la posizione di tutti i major in Ingegneria. È l’ultima figura di questo post.  Electrical Engineering sta a 3.4%, Mechanical Engineering al 2.8%, Civil Engineering al 3.2%. Computer Science (non è nella figura) al 2.3%.  Gli altri dati corrispondono a numeri piccoli e quindi non sono confrontabili.

Delle altre materie scientifiche, Fisica corrisponde al 4.1% e Matematica al 3.9%.

Con questi numeri, si capisce perché negli Stati Uniti le lauree in materie scientifiche e tecniche siano scelte sopratutto da immigrati: la probabilità di finire nel top 1% dei redditi è da due a tre volte maggiore se scegli un major di tipo medico o bio, due volte maggiore se scegli un major in economia, una volta e mezzo se scegli un major in scienze politiche o del governo.

Attenzione, i numeri nascondono altri ostacoli morbidi, per così dire, all’accesso a certe carriere. Però fanno riflettere, perché sono connessi alla globalizzazione, al calo della manifattura e alla perdità di capacità di produrre “tradables”, beni commerciabili a distanza. Anche su questo punto voglio insistere più avanti.

In Italia e in Europa la questione non è proprio uguale. Tradizionalmente molte posizioni manageriali in aziende sono coperte da ingegneri. Inoltre in Italia laureati sono ancora pochi rispetto alla popolazione generale (13% nel 2010 in italia contro un 30% negli Stati Uniti e un 24.2 nella EC a 12 paesi) e molti nel top 1% non hanno la laurea (per esempio, i politici di successo senza laurea sono tanti e compensano il fatto che scienze politiche dia in Italia un minore accesso al top 1% rispetto agli Stati Uniti).

L’altra cosa impressionante è l’handicap a cui sono soggetti in Italia i laureati in discipline umanistiche, rispetto a laureati in discipline economiche e giuridiche. Non c’è nessun motivo intrinseco per cui le cose debbano stare così. Ma sarà argomento di un altro post.

Undergraduate Degree Total % Who Are
1 Percenters
Share of All
1 Percenters
Health and Medical Preparatory Programs 142,345 11.8% 0.9%
Economics 1,237,863 8.2% 5.4%
Biochemical Sciences 193,769 7.2% 0.7%
Zoology 159,935 6.9% 0.6%
Biology 1,864,666 6.7% 6.6%
International Relations 146,781 6.7% 0.5%
Political Science and Government 1,427,224 6.2% 4.7%
Physiology 98,181 6.0% 0.3%
Art History and Criticism 137,357 5.9% 0.4%
Chemistry 780,783 5.7% 2.4%
Molecular Biology 64,951 5.6% 0.2%
Area, Ethnic and Civilization Studies 184,906 5.2% 0.5%
Finance 1,071,812 4.8% 2.7%
History 1,351,368 4.7% 3.3%
Business Economics 108,146 4.6% 0.3%
Miscellaneous Psychology 61,257 4.3% 0.1%
Philosophy and Religious Studies 448,095 4.3% 1.0%
Microbiology 147,954 4.2% 0.3%
Chemical Engineering 347,959 4.1% 0.8%
Physics 346,455 4.1% 0.7%
Pharmacy, Pharmaceutical Sciences and Administration 334,016 3.9% 0.7%
Accounting 2,296,601 3.9% 4.7%
Mathematics 840,137 3.9% 1.7%
English Language and Literature 1,938,988 3.8% 3.8%
Miscellaneous Biology 52,895 3.7% 0.1%

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Google, questo sembra stalking

 

Tra ieri sera e stamani ho visto ThisWeekInStartups, ho visto un video di Tiziano Ferro su YouTube, ho letto il NYTimes online.

Tutte le volte, è apparsa la pubblicità – sul video o in un banner – dell’outlet online di Petit Bateau. Alcuni fotogrammi sono qui sopra e sotto. Non è una coincidenza, è Google. Confesso, ho comprato sul sito di Petit Bateau, ci sono gli sconti ora, e mi è arrivata la conferma per posta (su gmail).

La nuova politica di privacy di Google comincia a somigliare troppo allo stalking. Non sento il bisogno che Google mi legga la posta e guardi che siti visito per scegliere che pubblicità mandarmi.

Lezione: bisogna sempre assumere che tutto quello che si fa online sia fatto in pubblico. Ok, lo sapevo già, ma è stato inquietante. Don’t do evil.

p.s. oggi usando il browser ho visto altre pubblicità di petit bateau (aggiunti in basso)

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Programmare è come scrivere

C’è una tendenza palese ad una sempre maggiore specializzazione nel lavoro, ma c’è anche un flusso opposto. Alcune competenze specialistiche diventano con il tempo requisiti minimi per tutti.

C’è stato un tempo in cui scrivere definiva una professione. Essere semplicemente capaci di scrivere era un’abilità rara e preziosa, che rendeva membri di una comunità di privilegiati. Poi la capacità di base di scrivere è diventato un requisito indispensabile per tutti, mentre solo i virtuosi della scrittura ne fanno un professione specifica.

Per un periodo saper dattilografare ha definito una professione, non particolarmente privilegiata, ma comunque specializzata. Ormai non più. Saper scrivere con una tastiera – anche solo con due dita – è diventato necessario per tutti.

Per la capacità di scrivere codice – di programmare – la transizione non è ancora completa. Oltre a chi ne fa la professione primaria, un numero sempre più ampio di persone scrive codice durante il proprio lavoro, non usa semplicemente il calcolatore. Pochi ne sono consapevoli, e sento spesso dire: sono un progettista, non un informatico; sono un economista, non un programmatore; sono un avvocato, non è cosa mia.

Scrivere codice sta ormai diventando un requisito di alfabetizzazione di base. Impara, anche solo con due dita.

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Di che si parla quando si parla di valore legale della laurea

La discussione sul valore legale del titolo di studio sta prendendo una piega surreale.

Per esempio, in un articolo di oggi sul Corriere della Sera, si dice che nel Governo si parla di far cadere il vincolo sul tipo di laurea per i concorsi pubblici che la prevedono, di eliminare il voto come criterio di merito dando più spazio alle prove del concorso, e di introdurre il criterio di accreditamento per le Università (da parte di ANVUR?).

Proviamo a immaginare la situazione: se si potrà sperare di vincere un concorso solo con un titolo di un corso accreditato (per es. AAA), non ci sarà nessuna differenza rispetto al caso di titolo con valore legale – se non di norma, almeno di fatto.

Se invece l’accreditamento sarà usato dalla commissione di concorso come criterio di merito che sostituisce o integra il voto di laurea, allora sarà poca cosa, ed è facile predire una serie infinita di ricorsi.

E quindi, qual è il senso di mantenere o abolire il valore legale della laurea?

Ci sono due cose di rilievo:

Una è l’azzeramento (come limite) in tutti i concorsi del punteggio assegnato al voto di laurea. La cosa in realtà si può fare indipendentemente dal fatto che il titolo di studio abbia valore legale. Si tratta di dire che ogni commissione deve responsabilmente e autonomamente giudicare il candidato sulla base del CV, delle prove scritte e del colloquio. Come si fa già ora per tutto tranne che per la laurea. È una cosa interessante – non so se meglio o peggio di ora – ma è solo una redistribuzione dei pesi di titoli e prove, che non tocca il concetto di valore legale del titolo.

L’altra cosa, ben più importante, è che senza valore legale del titolo è più facile creare una nuova Università e/o nuovi corsi di studio . Senza sottostare alle regole, alle autorizzazioni e alle lentezze del Ministero. Si può costituire un ente, chiamarlo Università, offrire corsi di studio che portano alla “laurea”, e cercare di accreditarli. Se l’accreditamento sarà difficile come avere l’approvazione del Ministero, non cambierà molto rispetto ad ora. Se l’accreditamento sarà più semplice o non necessario, allora le cose cambieranno parecchio.

Di questo si parla in realtà quando si discute di valore legale del titolo di studio: rendere più semplice far nascere nuove Università e nuovi corsi di studio.

Non è facile decidere se sia bene o male, ma certo conviene capire cosa sia veramente in ballo.

 

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Futures can be invented

Leggo oggi su ilpost.it e in molti tweet una citazione attribuita a Peter Drucker: “Il miglior modo per prevedere il futuro è crearlo”. La citazione che io ricordavo era di Alan Kay, con “inventarlo” al posto di “crearlo”. Ho letto molto Drucker ma non sono stato in grado di trovare la citazione su uno dei suoi libri.

Invece, con l’aiuto di Wikiquote e di Google books ne ho trovata una del fisico Dennis Gabor, in un libro del 1963: “Inventing the future”. L’immagine in alto è da pagina 207 dell’edizione Knopf del 1964: “The future cannot be predicted, but futures can be invented”. È al passivo, ma il significato è quello. La frase di Kay e’ successiva (1971). Qualcuno riesce a trovare qualcosa di Drucker precedente? La aggiudichiamo?

p.s. Per chi vuole ritrovare la frase su google books in link è questo

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