A che serve ridurre il costo del lavoro?

Ho sentito stasera l’intervista del Pres. Letta da Fabio Fazio. Ho letto l’articolo di Francesco Forte su Il Giornale di oggi (stimolato dalla lettura della critica su Phastidio).

La connessione diretta tra la riduzione del costo del lavoro e riduzione della disoccupazione, c’è solo se si ha in mente di far concorrenza sul costo del lavoro ai nuovi stati membri dell’Unione Europea. Altro che declino.

Confrontati con le altre economie avanzate della EU il nostro costo del lavoro è già basso [Dati Eurostat di Aprile qui]. Specialmente quello dei giovani.

Se vogliamo considerarci un grande paese, dobbiamo pensare che ridurre il cuneo fiscale – che è veramente alto – sia utile per lasciare più soldi ai lavoratori (e quindi farli spendere di più) ma non per far risparmiare le imprese sul costo del lavoro (perché assumano di più).

Il primo utile effetto sarà quindi dare più soldi a chi già lavora, non ridurre la disoccupazione. La riduzione della disoccupazione può essere un effetto importante ma letteralmente secondario, nel senso che se chi lavora spende di più, l’economia può tornare a crescere assorbendo parte degli inoccupati.

Continuare a legare la riduzione del costo del lavoro all’aumento dell’occupazione è una battaglia di retroguardia nel caso migliore, anche se la richiede Confindustria. Beh, però la presunta correlazione tra la riduzione dell’IMU e natalità è un esercizio di retorica impossibile.

 

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Swartz 13 – King 0

After a few days, Lessig again on Swartz:

Why was he being charged with 13 felonies?

His motive was political — obviously. His harm was exactly none — as JSTOR effectively acknowledged. But he deserved, your “career prosecutors” believed, to be deprived of his rights as a citizen (aka, a “felon,” no longer entitled to the political rights he fought to perfect) because of what he did.
 
Yet here’s the thing to remember on MLK weekend (even though my saying this violates a rule I believe in firmly, a kind of inverse to Godwin’s law, because though I believe these two great souls were motivated by exactly the same kind of justice, King’s cause was greater):
 
How many felonies was Martin Luther King, Jr., convicted of?
 
King, whose motives were political too, but who, unlike Aaron, triggered actions which caused real harm (as in physical damage).
 
What’s that number?
 
Zero.
 
And how many was he even charged with in the whole of his career?
 
Two.
 
Two bogus charges (perjury and tax evasion) from Alabama, which an all-white jury acquitted him of.
 
This is a measure of who we have become.

Indeed.

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L’Amnesia di Crichton

Ho appena trovato il nome di una malattia da cui sono affetto. Ero convinto di non essere il solo, ma ora ho la conferma e sono più confortato. Michael Crichton, in un bel discorso del 2002 all’International Leadership Forum la chiamava “Amnesia di Gell-Mann”. In realtà era una sua invenzione, e le dava il nome di un Nobel solo per conferirle più autorevolezza. Quindi per me è l’amnesia di Crichton.

Dunque io soffro dell’amnesia di Crichton. I sintomi sono questi, in quattro passi:

  1. Leggo un articolo di giornale, o ascolto un servizio in radio o tv su un argomento di cui conosco bene i dettagli (per esempio alcuni temi di fisica, tecnologie dell’informazione, ricerca scientifica, università).
  2. Mi accorgo che chi scrive non ha capito quasi niente di quello che descrive e di quello che è successo, che non sa interpretare e confrontare i dati, confonde causa ed effetto, e non fa il minimo sforzo.
  3. Decido che i giornalisti sono completamente inaffidabili, e che non bisogna credere a niente di quello che dicono.
  4. Un attimo dopo, mi dimentico del giudizio appena dato, e leggo o ascolto molto attentamente il pezzo successivo su un argomento di cui non ho conoscenza di prima mano, come il Medio Oriente, la crisi finanziaria, la Cina, la situazione nelle carceri, e milioni di altri. Appunto, è amnesia.

Ho provato a guarire nel 2012 seguendo pochissimo i tg, la radio, e leggendo pochissimi giornali e siti notizie. Andando alle fonti originarie, quando la notizia era importante e il tempo lo consentiva.

Ma ancora la guarigione è lontana, la cura sarà lunga e difficile.

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I video di TEDxPisa

I video di TEDxPisa sono da circa una settimana pubblicati  sul canale ufficiale TEDx su youtube, insieme ai più di ventimila degli altri TEDx da tutto il mondo.

Abbiamo voluto pubblicarli senza troppo rumore per vedere come si diffondevano con il passa parola, e per molti abbiamo già superato i 100 spettatori! Sono tutti inseriti anche nella pagina principale di www.tedxpisa.com e nella pagina di ogni speaker.

E’ una bella occasione per vedere o rivedere i video più appassionanti della giornata!

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Livorno in un’Italia smart.

Nel pomeriggio di Venerdì 19 ottobre, alla Camera di Commercio di Livorno, si parla di Smart cities.  Tutte le città provano a misurarsi con il concetto di smart city. Che vuol dire esattamente? che comporta in pratica? A che serve? C’è molta incertezza sull’argomento, e molta diversità nelle varie interpretazioni. Ne avevo parlato in passato qui

Beh, è il momento di parlarne anche a Livorno. L’associazione IdeaLi e la Camera di Commercio di Livorno colgono l’iniziativa mettendo in campo un tris eccezionale di relatori per la visione generale:

Luigi Nicolais, ora presidente del CNR ed ex ministro per l’innovazione nella PA, Alfonso Fuggetta, AD del CEFRIEL-Polimi e commentatore su lavoce.info, Oscar Cicchetti, Direttore Strategies di Telecom Italia e membro del Consiglio Direttivo di Confindustria Digitale.

Ci sono poi due relatori che portano l’esperienza di Genova (Paolo Pissarello) e di Firenze (Giovanni Menduni). Anch’io dico la mia, giusto un attimo prima dell’aperitivo.

Il programma completo è qui sotto, mentre la locandina è qui. L’ingresso è libero.

—-

Programma Livorno in un’Italia smart

16.00 – REGISTRAZIONE PARTECIPANTI
16.30 – APERTURA LAVORI E PRESENTAZIONE INCONTRO
Roberto Nardi – Presidente Camera di Commercio di Livorno
Gabriele Brugnoni – Associazione ideaLi

16.45 – LA VISIONE GENERALE
Coordina: Roberto Bernabò – Direttore de “Il Tirreno”

Luigi Nicolais – Presidente Consiglio Nazionale delle Ricerche
Smart city: Innovazione al servizio del cittadino

Alfonso Fuggetta – AD CEFRIEL, Politecnico di Milano
L’interoperabilità dei sistemi è la chiave per lo sviluppo delle smartcity

Oscar Cicchetti – Confndustria Digitale
Smart City: un’opportunità per il Sistema Paese

18.15 – ESPERIENZE DI CITTÀ SMART
Paolo Pissarello – Vice Presidente esecutivo di Genova Smart City
Il percorso Genova Smart City

Giovanni Menduni – Dir. Area Innovazione Comune di Firenze
Firenze dati aperti

18.45 – UN CONFRONTO DI IDEE per il TERRITORIO
Intervengono imprese, amministratori, e professionisti.
Coordina: Francesco Gazzetti – Granducato TV

19.30 – CONCLUSIONI
Giuseppe Iannaccone – Prof. Elettronica Uni Pisa – ideaLi
Le infrastrutture digitali e il vento perenne trasformano le città

20.00 – APERITIVO

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Due settimane a TEDxPisa!

Mancano esattamente due settimane a TEDxPisa.

Siamo entusiasti della qualità e della diversità degli speaker e dei temi!

Senza retorica e senza enfasi, si parlerà del coraggio di assumere l’iniziativa per innovare, costruire un’impresa, decidere di investire, contare su sé stessi, assumere responsabilità difficili, non seguire la folla, denunciare il potere.

Sono obiettivi molto diversi, accomunati dal fatto di richiedere a ciascuno di uscire dal proprio recinto sicuro e di accettare il rischio di sbagliare, fallire, perdere.

In un tempo di veloci cambiamenti come il nostro, i recinti veramente sicuri sono sempre più rari. Il coraggio diventa quindi una qualità necessaria, non una virtù eroica.

Per questo ne parliamo insieme, il 29 settembre a Pisa, al Teatro Verdi.

Ci metteremo un giorno intero, dalle 11 alle 17. Nel mezzo ascolteremo, guarderemo, rifletteremo, converseremo.

Tutti i dettagli qua: programmamodulo di registrazionerelatori.

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La classe dirigente e lo schema di Ponzi

Questo pezzo è stato pubblicato su Il Tirreno, p.1 e 17, del 25 luglio 2012 (con un titolo leggermente diverso, ma il mio mi piaceva di più)

Ogni generazione si lamenta dei più giovani. Non sono certo all’altezza di chi li ha preceduti. Non hanno spirito di sacrificio e senso di responsabilità. Non hanno i fondamentali giusti. Tra vecchietti ci diciamo “ai nostri tempi era diverso”!

Credo invece sia vero il contrario.

Consideriamo la classe dirigente in coorti di una decade. Il miglioramento medio è stato impressionante. I quarantenni della nostra classe dirigente hanno qualità superiori ai cinquantenni, che a loro volta superano i sessantenni, che lasciano buoni ultimi i settantenni. Ho grandi speranze per i trentenni, ma sono ancora troppo pochi per fare un discorso generale.

La mia tesi e l’abbaglio della vulgata comune si spiegano considerando tre motivi:

  1. L’educazione generale della popolazione è migliorata moltissimo. In Italia, secondo il rapporto 2011 “Education at a glance” della OCSE, il 70% dei trentenni contro il 37% dei sessantenni ha terminato le scuole superiori, il 20% dei trentenni rispetto al 10% dei sessantenni ha conseguito una laurea. Questo allargamento della base da cui emerge la classe dirigente abbassa il livello medio – causando l’abbaglio di cui sopra – ma alza il livello di picco. È una legge di natura generale, nella fisica statistica e nel calcio, che se si aumenta la popolazione di partenza le eccellenze migliorano. È più facile trovare 11 grandi campioni di calcio in Italia che in Norvegia.
  2. L’ingresso delle donne in professioni da “classe dirigente” ha praticamente raddoppiato la dimensione dell’insieme tra cui selezionare, ancora migliorando la qualità del picco.
  3. La classe dirigente è cresciuta numericamente meno della popolazione, e in certi casi è addirittura diminuita. Per esempio, in molte grandi aziende negli ultimi anni il ricambio dei dirigenti è stato solo parziale, e il numero complessivo è dunque rapidamente calato.

Non pretendo di aver fornito una dimostrazione, ma vi propongo un test: prendete una qualunque professione di rilievo che conoscete da vicino, e considerate a parità di ruolo la qualità professionale media nelle diverse fasce di età.

Due regole: a) valgono solo casi in cui l’insieme di partenza sia abbastanza grande da consentirci di evitare gli aneddoti; b) si devono confrontare persone di ruolo paragonabile, quindi è normale che a decadi più anziane corrispondano insiemi più numerosi.

Consideriamo ad esempio i dirigenti d’azienda. Fate riferimento a una grande azienda italiana, quella che volete purché fornisca un campione ampio e purché la conosciate almeno un po’ dall’interno. Ora confrontate la qualità media delle diverse decadi. Non temo di essere smentito dicendo che la qualità media dei settantenni (ormai in pensione, ma possiamo usare la memoria) sia mediamente più bassa di quella dei sessantenni, che sono peggio dei cinquantenni, fino a raggiungere il massimo nei quarantenni. E stanno crescendo dei trentenni fortissimi.

Ora prendete i medici ospedalieri. Ora i professori universitari. I notai. Gli avvocati. Gli scienziati. I capi progetto. Gli ufficiali superiori delle forze armate. Gli imprenditori. Sfido a trovare una categoria abbastanza grande in cui questo non sia vero. In media lo è anche per i parlamentari, se considerate un campione grande e un solo “grande campione” di cui hanno buttato lo stampo.

E allora perché il paese è bloccato? Perché anche il ricambio delle classi dirigenti è bloccato?

Credo che abbia ragione Luca Ricolfi in un eccezionale articolo di un paio di mesi fa su La Stampa. È il conformismo e l’abitudine alla cooptazione che frena tutti a sfidare lo status quo. È questo perverso schema di Ponzi per cui ciascuno di pensa di essere in fila per la carriera che i più anziani hanno avuto e non vuole che qualcuno mandi tutto per aria azzerando le precedenze. Per cui un cinquantenne aspetta che il sessantenne al comando lasci, ma raramente lo sfida. Per cui sono i più giovani ad essere contro chi vuole rovesciare lo status quo, perché è dallo status quo che vogliono essere premiati.

La rinascita del Paese passa attraverso chi non accetta di stare al proprio posto. Attraverso chi fa saltare l’illusione stessa che ci sia una fila. Perché questo schema di Ponzi non funziona più, e non solo in Italia.

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7 abitudini

Ho letto “The seven habits of highly effective people” di Stephen Covey almeno 5 volte. Un tempo mi ero anche fatto un riassunto per ripassarlo più velocemente. Non è il solito libro per migliorare se stessi. È denso e convincente. Ne ho comprate alcune copie nel tempo, per darle a chi mi pareva predisposto a cogliere il messaggio. Anche per le bambine avevo comprato un libro di 7 favole sulle 7 abitudini. Mi seccava solo il ridicolo titolo in italiano (“I 7 pilastri del successo”), che tralascia il sostantivo e l’aggettivo più importanti:

  1. Le abitudini (habits). Il carattere è l’insieme delle abitudini che abbiamo. Ok, più o meno lo diceva anche Aristotele nel secondo libro dell’Etica a Nicomaco (un po’ di Google fa fare dei figuroni!), ma non mi pare che sia un concetto acquisito, se mi guardo in giro.
  2. Efficaci (effective): Le 7 abitudini rendono efficaci, perché non è vero che “volere è potere”. Tutti noi, personalmente e collettivamente, ci comportiamo osservando leggi “naturali”, magari non deterministiche, un po’ fuzzy, ma sempre leggi.

Qualche hanno fa Covey scrisse anche “The 8th habit”, perché mancava qualcosa. La settimana scorsa Covey è morto, quindi ci fermeremo a 8. Mi ha lasciato la consapevolezza dell’importanza delle abitudini, dell’esistenza di leggi naturali, e della necessità di un lavoro continuo su se stessi. Ora che ci penso, mi serve un altro ripasso, perché ancora non ho imparato.

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La statistica e le discriminazioni

Come al solito i numeri sui giornali non tornano mai. La sentenza sulla causa indetta dalla FIOM alla FIAT sulle discriminazioni a Pomigliano è su tutti i giornali di ieri (sole24ore qui, linkiesta qui).

In breve, di 4367 operai che lavoravano a Pomigliano al 1/1/2011, 382 erano iscritti alla FIOM (rimasti poi iscritti in 207). Ne sono stati riassunti dalla FIAT 1893, di cui nessuno iscritto alla FIOM. La probabilità che una cosa del genere succeda assumendo “a caso” è circa una su 10 milioni (1e-7), dice la sentenza sulla base della perizia del consulente di parte della FIOM. In realtà, i conti sono semplici semplici, e la probabilità è molto più bassa: Considerando una base di 362 iscritti FIOM (togliendone 20 che hanno revocato l’iscrizione e sono stati assunti), la probabilità è 2.21e-95. Considerando in modo più conservativo una base di 207 iscritti è invece 1.8e-53. Molti ordini di grandezza inferiore a 1e-7. Un errore del perito mi pare improbabile, è un calcolo da scuola superiore. Più probabile che il magistrato o i giornali non abbiano riportato bene gli aspetti quantitativi. Sarebbe interessante vedere la perizia.

Comunque, il giudice ordina alla FIAT di ripristinare la proporzione precedente di iscritti alla FIOM (8.75% = 382/4367) assumendo altri 140 iscritti alla FIOM.

È probabile che FIAT discriminasse contro gli iscritti FIOM? Certo che è probabile, giudicando da i numeri.

La statistica fornisce un ottimo indizio, ma è ragionevole usarla come base di una sentenza?

Qui veramente non sono d’accordo con me stesso. Da un lato sì, perché non c’è niente di assolutamente certo al mondo, e l’inferenza statistica è uno dei pochi mezzi per far emergere discriminazioni. Però è anche vero che il numero viene ottenuto perché si fanno alcune assunzioni semplificative e in qualche modo assiomatiche sulle proprietà dell’insieme considerato (nel caso specifico, che l’iscrizione ad un particolare sindacato e l’impiego in uno stabilimento e la qualità del lavoro siano aspetti del tutto incorrelati e indipendenti).

Non so se è la prima sentenza basata sulla statistica in Italia. Sono convinto che sia l’inizio di un diluvio di cause su discriminazioni di ogni tipo, con esiti imprevedibili.

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È tutta colpa loro

Dall’editoriale di Mario Calabresi su La Stampa di oggi (9 giugno 2012)

Non possiamo pensare che il dramma del debito greco e spagnolo che si sta vivendo in queste ore, la reale paura di una rottura del sistema monetario, non ci riguardi più. Non possiamo dire che la colpa è americana, o greca, o spagnola, o tedesca o dei tecnici, e fare finta che il problema e la responsabilità dell’immenso debito italiano non siano nostri. Possiamo scaricare la colpa sui politici, sugli sprechi, sulle auto blu, sui carrozzoni pubblici, ma poi dovremmo sapere che la situazione è anche figlia di un sistema in cui la sanità come l’istruzione e i servizi ci sono stati garantiti con spese che andavano ben oltre le nostre possibilità. Siamo tutti sulla stessa barca, pensare di chiamarsi fuori, di stare a guardare, di esercitarsi nel tiro al bersaglio è un gioco rischioso e ingiusto.

D’accordo al 100%

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