Due letture interessanti sull’istruzione universitaria (online e offline)

L’argomento pare proprio caldo.

  1. Il Presidente della Stanford University, John. L. Hennessy: “Stanford University’s president predicts the death of the lecture hall as university education moves online”
  2. Breve articolo su lavoce.info di Pamela Giustinelli e Nicola Persico, sulla scelta “poco ragionata” del corso universitario. Sopratutto qui condivido il commento di Alessandro Figà Talamanca (proprio lui?), come sottolineavo anch’io in un mio vecchio post: per rendere meno irreversibile la scelta si deve disaccoppiare il primo titolo di studio dalla professione, come spesso succede negli US e in UK. Si può fare benissimo una Medical School dopo una prima laurea in Biologia, o una Law School dopo una prima laurea in Lettere. Anche per le materie scientifiche si può lavorare in questa direzione. [Perché sono così nascosti i commenti su lavoce.info?]
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Lezione a scuola sulle città intelligenti

Il 12 novembre 2011, nell’ambito di Pianeta Galileo, ho tenuto al liceo Cecioni di Livorno una lezione-incontro sulle città intelligenti. Erano ragazzi del secondo anno. Non mi pare di essere riuscito a trasmettere al meglio il senso e l’entusiasmo per il tema. Ma ci riprovo: l’anno precedente avevo fatto una cosa simile con i ragazzi delle quinte dell’Enriques ed ero rimasto proprio contento di com’era andata. La presentazione è nella gallery allegata a questo post.

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Un approccio semplice

(English version of this post)

Fare lo scienziato è un mestiere. È invece un mistero per me perché in italiano la parola si usi solo per indicare un ‘grande Scienziato’. Per il lavoro più mondano dello scienziato, si preferisce la più ambigua ‘ricercatore’. Tra l’altro, il ricercatore è una categoria più ampia dello scienziato, per esempio comprende anche gli umanisti.

In inglese, scientist è una parola comune, e si trova su molti i biglietti da visita di chi ha un impiego in ricerca e sviluppo in imprese, enti di ricerca e università. Il nostro ‘ricercatore’ è invece come al solito derivato dal ‘chercheur’ francese.

Ma più importante è l’approccio da scienziato. Che consiste nel non accettare nessun principio di autorità nel considerare un tema o nel formarsi un parere. Non conta il curriculum, non conta il titolo di studio, non conta l’autorevolezza di chi parla. Ogni affermazione si misura solo con la consistenza degli argomenti e con verifiche di falsificabilità.

È una versione quotidiana e in tono minore del metodo scientifico. Una sana deformazione professionale. Si trova in tanti che scienziati non sono, anche con basso livello di istruzione. A volte manca in scienziati di professione, a volte si trova in qualche ragazzo irriverente.

Mai dire ‘l’ha detto X’, ‘tu che ne sai, mica sei un Y’, ‘Io ho studiato a’, ‘lo sanno tutti’. Nota frequente per gli studenti: non credete a quello che dico, verificate tutto.

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5 Tecnologie sopravvalutate

Una campagna di marketing ossessiva e ben orchestrata, aiutata dai media capaci di poco più che rilanciare le press release aziendali, riesce a spingere nel mercato tecnologie palesemente inadeguate. Dei bidoni technologici.

Il nerd in me rimane ogni volta deluso. Specie quando anche gli amici e la famiglia si lasciano ingannare dalle chiacchiere e non ascoltano il nerd medesimo. Questo post serve a evitare di dire: io l’avevo detto. La prossima volta mando solo il link.

Questa è una lista di 5 tecnologie molto sopravvalutate. Alcune, finalmente, se ne sono andate. Altre ancora ci deprimono. Tutte spariranno. Difficile fermarsi solo a 5.

1. Video telefonata mobile.

Questa è facile. Useless. In Italia ha praticamente definito il marchio di Tre, la prima compagna telefonica italiana solo 3G. La qualità della comunicazione era pessima, e nessuno voleva parlare al telefono con il braccio teso in avanti. Una campagna tv e stampa ossessiva ha fatto piazzare diversi milioni di apparecchi. Anche le versioni più moderne (Facetime, Skype) su telefono sono inutili.

2. Il GPL in auto.

Qui il bidone è più sottile. Può essere utile se applicato ad una vecchia auto a benzina, perché riduce i consumi portandoli a quelli di una vettura diesel analoga, evitando di dover acquistare un’auto nuova. Se invece si sta comprando un’auto, meglio comprare allora un diesel: ha gli stessi costi di gestione, ed è molto più pratica. Oppure rinunciare alla praticità e scegliere veramente di risparmiare con il metano. Una prova in fondo al post [1].

3. Le auto ibride.

Beh, qui il marketing non ha funzionato, perché in giro se ne vedono poche. Anche con gli incentivi, la tecnologia era così complicata e il prezzo talmente alto che si potevano comprare solo per questioni di immagine. I vantaggi in termini di consumi e ambientali difficili da misurare. Stanno sparendo dal mercato, sostituite con le auto ibride plug in (la cui batteria si ricarica con la tensione di rete). Anche in questo caso, attenti a misurare i vantaggi, senza credere al marketing. Una tecnologia si misura anche con il costo.

4. Lampade fluorescenti a basso consumo.

Dovevano costare molto di più ma durare 8-10 volte più delle lampade a incandescenza. In realtà la vita della lampada è limitata dal numero di accensioni e spegnimenti, e quindi molti hanno potuto vedere che in pratica è di poco superiore a una comune lampada a incandescenza.

Alla fine il costo totale della lampada (acquisto più consumo) non giustifica il fastidio di una luce brutta e lenta ad andare a regime. Bidone totale, aggravato dal fatto che per legge sono sparite dal mercato le lampade a incandescenza.

Anche questa storia finirà, perché le alogene sono molto più belle, e le lampade a LED stanno migliorando velocemente. Ma hanno fregato anche me: quando sono sparite le lampade incandescenti, ho installato un sacco di lampade fluorescenti, e le sto sostituendo piano piano tutte.

5. TV 3D.

Tutto il bello della TV ad alta definizione si perde con la TV 3D. La risoluzione percepita praticamente dimezza. E sopratutto la tridimensionalità è completamente innaturale, completamente deformata rispetto a quella che i nostri occhi e il nostro cervello ci forniscono. A poco più di un metro, l’effetto tridimensionale naturale sparisce, mentre in questi film viene esagerato di un fattore superiore a dieci mettendo I due obiettivi a distanza di più di un metro. Ok, anche l’audio stereo è artificiale, ma è meno fastidioso.

Eppure, avete notato che la linea di punta di tutti i negozi di elettronica di consumo è fatta da TV 3D. Finirà?

 

Scrivendo queste me ne sono venute in mente altre cinque. Ma le conservo per un’altra volta.

Suggerimenti? Commenti?

 

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Miliardari in Italia

Si può imparare qualcosa del carattere di una Nazione guardando i suoi miliardari?

Secondo Forbes in Italia ci sono 16 miliardari (in dollari).

Undici di essi provengono da settori industriali legati alla moda: Leonardo del Vecchio (Luxottica), Giorgio Armani, Miuccia Prada e Patrizio Bertelli (Prada), i quattro fratelli Benetton, Poletti Polegato (Geox), i due fratelli Della Valle (Tods).

Gli altri settori industriali in ordine sparso:: uno dall’industria dell’acciaio (Rocca), uno dall’alimentare (Ferrero), uno dall’industria farmaceutica (Pessina), uno dalle assicurazioni (Doris), uno dai Media (Berlusconi).

I miliardari sono solo la punta dell’iceberg. Ma la punta è dello stesso materiale del resto dell’iceberg.

In questo paese l’industria della moda regna sovrana. L’industria High tech è un peso piuma.

 

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Note to self: A.B.C. – Always Be Closing

Dalla versione cinematografica di Glengarry Glen Ross di David Mamet (brutto titolo in Italiano: “Americani”). Fantastico Alec Baldwin.

Devo la citazione a mio fratello Gianluca. Mentre affettuosamente mi cazziava alcuni anni fa. Ma mi è rimasta impressa.

Anche se non sono un venditore, porto avanti troppe cose in parallelo, che avanzano troppo piano. Per me A.B.C. si traduce in: Mantieni lo slancio. Fanne tante ma in serie, non in parallelo. Prima chiudi le cose aperte e poi cominciane di nuove.

Mi è tornata in mente oggi mentre cercavo di organizzare il calendario delle prossime settimane.

A.B.C. Always. Be. Closing.

p.s. Gianluca non era cattivo come Alec Baldwin qui (il video del film):

 

 

 

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Smart cities and regions

È uscito su Il Tirreno (22 marzo 2012) questo mio intervento, con titolo: “Smart city, l’intelligenza va in città”. Qui ci sono tutti i link attivi.

A chi non piace una cosa smart? Intelligente, sveglia. E a chi non piace una smart city, una città intelligente? L’entusiasmo per il concetto di smart cities (declinato al plurale, perché il singolare funziona meno) è a un livello mai visto. Nell’ultimo anno il numero di ricerche su google del termine “smart cities” in tutto il mondo, ha avuto un’impennata da vera bolla (grafico qui).

La discussione sulle smart city è animata dai mezzi di comunicazione, dalle amministrazioni pubbliche, da grandi e piccole imprese nel settore ICT (le tecnologie per l’informazione e la comunicazione)  e da associazioni di cittadini. Come spesso succede in questi casi, ciascuno intende una cosa diversa, e il concetto diventa sempre più vago e sfuggente. Da un lato sembra la panacea di tutto ciò che non funziona nella vita urbana, dall’altro sembra la moda dell’anno.

È quindi importante trovare un nucleo minimo del concetto che sia comune alle diverse interpretazioni. Ciascuno potrà poi colorare la smart city nel modo più congeniale ai propri valori ed esigenze.

La città è un sistema di sistemi: la viabilità urbana, i trasporti pubblici, l’illuminazione pubblica, le acque, le fognature, la gestione dei rifiuti, e molti altri ancora. In una smart city questi sistemi sono a loro volta intelligenti in un senso molto specifico: rilevano i cambiamenti dell’ambiente e delle esigenze degli utenti, e forniscono agli utenti/gestori le informazioni per reagire, o reagiscono in modo automatico. Poiché i vari sistemi sono dispiegati nel medesimo ambiente urbano, hanno spesso bisogno degli stessi dati e delle stesse informazioni, che devono dunque condividere con fluidità.

Una smart city è quindi una città con infrastrutture intelligenti che condividono le informazioni. Si tratta di una definizione minimalista, a cui ciascuno potrà aggiungere altri requisiti in base alla propria visione. Per esempio, il movimento Open Data, considera la città smart solo se i dati sono anche forniti in modo trasparente e aperto a tutti i cittadini. Altri, richiedono anche che la città sia sostenibile dal punto di vista energetico, per riconoscerla come veramente smart. E così via.

In questo scenario, grandi imprese ICT (per esempio IBM, Cisco Systems, Oracle) vedono essenzialmente le città come clienti. Hanno iniettato negli ultimi anni dosi massicce di tecnologie nelle imprese per la gestione dei sistemi aziendali, e stanno rifocalizzando i loro prodotti e l’organizzazione per il nuovo mercato delle città intelligenti, proponendo sopratutto piattaforme di comando e controllo. Piccole imprese nel settore propongono soluzioni per problemi specifici, spesso facendo leva sulla ampia diffusione degli smartphone con connessione dati su rete cellulare 3G. Dal punto di vista delle amministrazioni pubbliche, c’è l’interesse a fornire servizi migliori ai cittadini a costi sostenibili, oltre che a ottenere un positivo ritorno d’immagine (smart!).

Ci sono però alcuni aspetti critici. Attori locali pubblici e privati raramente si impegnano in un progetto di infrastrutture intelligenti se non c’è un finanziamento pubblico da un livello superiore (tipicamente europeo o nazionale) che copra un’alta frazione dei costi. Un coinvolgimento maggiore degli attori locali garantirebbe una migliore selezione delle iniziative con più alto ritorno sull’investimento.

Il secondo aspetto critico riguarda la condivisione dei dati. Oggi chi raccoglie i dati ne ha la proprietà e li conserva gelosamente. Basta pensare agli operatori di telefonia mobile, che gestiscono una delle poche grandi infrastrutture intelligenti. Se non cambia la legge, bisogna creare le condizioni che incentivino la condivisione dei dati da parte dei gestori dei differenti sistemi.

Ancora più critica è una necessità di un cambiamento di tipo culturale e istituzionale. Perché veramente ci sia tensione a fornire servizi in modo più completo, rapido, preciso, è necessario che i cittadini vengano visti come clienti dei servizi. Clienti che se non sono soddisfatti cambiano fornitore. Per questo conta sia il modo in cui il servizio è strutturato, sia la cultura di chi amministra: se una città fornisce in modo sistematico servizi di qualità inferiore, un cittadino può cambiare fornitore trasferendosi altrove.

Infine, i fattori di scala. Il ritorno per gli investimenti in smart city e le economie di scala favoriscono le metropoli. Guardando le città della Toscana, questo è uno svantaggio. Ma su scala regionale lo svantaggio sparisce: ci sono la taglia e la dimensione giusta per sfruttare le economie di scala. I dati possono essere condivisi anche tra infrastrutture distribuite su scala geografica. Dopo tutto, la Bay Area di San Francisco è poco più piccola della Toscana, e ha quasi il doppio della popolazione. Non è un esempio a caso, ci sono somiglianze. Smart Region?

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Lezioni da Angry Birds

La storia di Rovio, la società che ha creato Angry Birds, è impressionante, (qui su Wired.co.uk).

Contiene almeno una forte lezione per le start up tecnologiche: Angry Birds era il 52esimo gioco di Rovio.

Prima di Angry Birds Rovio ha avuto alti e bassi, senza nessun grande successo. Rovio è partita con l’investimento di 1 M$ nel 2003, e ha sopratutto sviluppato giochi per società più grandi, dotate di un proprio canale di distribuzione. È passata da 2 a 50 e poi a 12 dipendenti. Quasi in fallimento, nel 2009, hanno avuto il loro primo grande successo sull’Appstore con Angry Birds.

Da allora, hanno lavorato senza sosta per sfruttare quel successo mediante molteplici canali di vendita.

Adesso, il fatturato di Rovio è stimato intorno a 50 M$, 20 M$ dalle vendite e accordi di licenza non direttamente legati ai videogiochi, e 30 M$ dai videogiochi, di cui circa metà dalla piattaforma iOS e metà dalla piattaforma Android. Hanno ricevuto un finanziamento serie A di 42 M$ nel 2011, e rifiutato una offerta di acquisizione di 2.25 B$ da Zynga.

È un’altra storia che ricorda che 1. l’idea iniziale ha valore zero, 2. è importante insistere, aggiustare il tiro, diventare più abili, e provare ancora.

– English version here

 

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Lucio Dalla e Gabriele

1983 non è il miglior disco di Dalla*, ma era anche l’anno in cui cominciavo ad ascoltare un po’ di musica vera. Gabriele era già un fan, lui era sempre un po’ avanti. Mi diede una cassetta*. Io rimasi folgorato, anche se ripensandoci non era un gran che.

Però avevo l’età giusta. Ho cercato tutti i dischi e ho imparato a memoria tutte le canzoni. L’ho seguito religiosamente fino a Cambio, nel 1990. Poi sono cambiato anch’io e ho smesso. Ho smesso proprio di ascoltare musica. Non era più una parte importante della mia vita.

Prima, la musica era importante per me. Suonavo e cantavo Dalla per conto mio, ma era difficile. L’unica volta in cui ho suonato pop in teatro volli fare Anna e Marco. Era il 1985, al Teatro 4 Mori, a Livorno. Eravamo un quartetto di adolescenti (scarsi, a dire il vero). Io ero al piano e voce. Anna e Marco non era neanche la canzone che mi piaceva di più. Però era abbordabile.

Quando mancano certe persone, pensi a quella parte di te che era legata a loro, anche se neanche lo immaginavano.

Solipsismo puro.

Ora, la morte di Dalla mi ricorda la scomparsa di Gabriele, più di 21 anni fa. Fa di nuovo male.


*Sì, allora la musica si distribuiva in dischi in vinile (preferibilmente LP) e musicassette. E i libri erano di carta. Che sfigati.
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Un Paese Snello

Questo è un mio articolo su Il Tirreno del 29 gennaio scorso, che non è disponibile nella versione gratuita online del giornale. Commenti? Usate Disqus qua sotto, con un account di qualunque social network…

Il Tirreno, 29 gennaio 2012 

Tutte le principali nazioni europee hanno oggi lo stesso problema, anche se in misura diversa: hanno varato un piano di austerità per ridurre il defiti di bilancio o aumentare il surplus, ma hanno bisogno di generare crescita economica. Per la Germania il problema è più semplice, per L’Italia è formidabile.

Sappiamo ormai che le classiche ricette per la crescita non sono usabili: aumentare la spesa pubblica non è praticabile, svalutare non è possible, aumentare le esportazioni è difficile se gli altri paesi sono attenti alle spese. Le liberalizzazioni appena varate hanno effetto forse solo a lungo termine, ma non nei prossimi due-tre anni.

Ma c’è ancora uno strumento che non è stato usato: snellire il Paese.

Un programma deciso per semplificare, alleggerire, tagliare una serie infinita di norme inutili e complicazioni che zavorrano tutti coloro che vorrebbero fare qualcosa in Italia. Una serie di azioni per spingere l’uso di tecnologie moderne per snellire i processi, le interazioni tra pubblica amministrazione,  imprese, cittadini, e per ridurre il tasso di errori in quello che facciamo.

Nonostante se ne parli da decenni stiamo peggiorando. Perché qualcosa è stato fatto ma il mondo si muove più veloce. Sembra che ora il governo voglia agire e speriamo lo faccia con decisione.

Un ostacolo grande è rappresentato dal fatto che tutte queste complicazioni giustificano la presenza di strati di burocrazia: impiegati, quadri, dirigenti, legioni di professionisti e consulenti. Tutti si oppongono a ogni semplificazione in nome di qualche garanzia di qualità spesso ingiustificata.

Ma c’è un ostacolo ancora maggiore: l’Inerzia formidabile anche di chi non ha secondi fini. Questa abitudine a muoversi in uno scafandro fin da piccoli. E l’inerzia si vince solo in un modo: rendendo alcune semplificazioni obbligatorie da subito e definitive. Non facoltative. Non derogabili.

Un esempio? Presso l’Università di Pisa l’uso facoltativo di verbalizzazione elettronica degli esami è cominciato dieci anni fa, prima con i cellulari poi con un terminale POS, come quello con cui nei negozi si usa il bancomat. Funzionava perfettamente ed era comodissimo da subito. Eliminava scartoffie e risparmiava il tempo di passare allo scanner e trascrivere a mano i verbali di carta. Faceva comparire subito gli esami nelle carriere degli studenti.

Ma era facoltativo, e solo alcuni docenti veloci con le nuove tecnologie lo usavano. Finché non è diventato obbligatorio, qualche anno fa. A quel punto si sono visti i benefici veri per tutti.

Per essere efficaci, procedure di snellimento e digitalizzazione devono diventare obbligatorie e perentorie.

Si può snellire anche senza digitalizzare. Basta prestare un’attenzione maniacale alla cosa. E non basta digitalizzare per snellire. Siamo riusciti ad avere procedure digitalizzate ma inutilmente complicate, ad ogni livello di amministrazione.

Non snobbiamo l’effetto dello snellimento sulla crescita. Più snello, il paese si muove più veloce, consuma meno, si usura meno. Proprio come una persona. Lo scafandro che abbiamo addosso rappresenta un costo enorme e drena le limitate risorse di energia di imprese e cittadini.

Finisco con un altro esempio tratto da un ambiente che conosco bene. La Commissione Europea finanzia con i Programmi Quadro la ricerca e lo sviluppo delle imprese e degli enti di ricerca. Fanno lo stesso in italia i Ministeri, con vari programmi, e le Regioni. Interagire con la Commissione Europea, al confronto, è il Paradiso: pochi adempimenti burocratici, le certificazioni che contano, pagamenti veloci. Dieci volte più semplice per finanziamenti anche dieci volte maggiori.

Poi, ironicamente, quando parli con colleghi tedeschi, francesi, scandinavi ti dicono esattamente il contrario: aver a che fare con la Commissione Europea è un Inferno: una burocrazia infinita rispetto all’agenzia di finanziamento nazionale.

Uno può anche essere intimanente sciovinista, ma non così masochista da non voler emulare i buoni esempi che ci sono. Ci vuole un’attenzione maniacale a semplificare centinaia di piccoli aspetti. Un’Italia snella si può. Leviamoci questo scafandro.

 

– link alle immagini dell’articolo: 1 e 2

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