Carole King, Tapestry, Cristiana

Il 9 febbraio Carole King ha fatto 70 anni. Lo so perché l’ho letto sul Post.

Il disco più famoso di King è Tapestry, praticamente il disco più bello del mondo. È uscito poco più di 40 anni fa, nel dicembre del 1971, poche settimane prima che nascesse Cristiana.

Ho conosciuto Cristiana il giorno prima del compleanno, 15 anni e pochi giorni fa, e le ho regalato subito il cd di King, perché aveva come lei giusto 25 anni. Volevo fare colpo facendo l’esperto di musica, quello che regala i classici.

Mi è andata bene, e da allora siamo stati sempre insieme. Olè!

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La laurea e il rating degli atenei

Oggi piatto doppio: ritorno sul tema del valore legale della laurea con un articolo su Il Tirreno. Il mio titolo era lo stesso del mio vecchio post, ma il loro è migliore.

L’articolo in pdf dal giornale si trova qui, ma il testo è qui sotto.

Il Tirreno, 10 febbraio 2012

Molti hanno un’opinione perentoria sull’abolizione o il mantenimento del valore legale della laurea, nonostante il senso della questione sia veramente sfuggevole. Per esempio, a seconda di come la cosa si realizza, può diventare un’operazione di natura dirigista o liberista.

Il valore legale del titolo di studio è definito da due vincoli. Da un lato,  un’organizzazione che si voglia chiamare Università e voglia offrire un corso di studio che porti al conseguimento della “laurea”, deve essere autorizzata dal Ministero competente. Per farla semplice, deve rispettare norme sulle modalità di assunzione dei docenti, sul loro numero rispetto ai corsi di studio che vuole offrire, sulle materie previste per ciascun corso di studio. Dall’altro lato, nelle selezioni pubbliche, non si può esplicitamente discriminare i candidati in base all’Università presso la quale è stata conseguita la “laurea.”

Parlo di selezioni pubbliche per includere sia concorsi pubblici sia selezioni in aziende private basate su procedure interne condivise (molte posizioni in molte imprese medio-grandi).

Ci sono cose che non c’entrano niente con il valore legale della laurea. Anche oggi l’ente o l’impresa che bandisce una posizione può ridurre o eliminare i vincoli sul tipo di laurea, e qualunque commissione di concorso o selezionatore può decidere di non dare peso reale al voto di laurea. Sono cose che si sceglie di fare per scremare i candidati e semplificarsi il lavoro. Impedire che si possano fare è un atto dirigista, non liberista.

Ci sono anche oggi titoli che non hanno valore legale. Vengono valutati in modo qualitativo, inglobandoli nella valutazione generale del curriculum, oppure in modo forfettario. Per esempio: 5 punti per un master di almeno 12 mesi.

Ora facciamo un esperimento mentale e supponiamo di abolire il valore legale della laurea. Che succede?

Dipende. Supponiamo che il riconoscimento del Ministero sia sostituito da un accreditamento da parte di un’apposita agenzia.

Se ottenere l’accreditamento sarà difficile come ottenere il riconoscimento del Ministero, cambierà abbastanza poco.  Se invece sarà semplice, o se non sarà necessario, le cose cambieranno, perché sarà più facile creare nuove Università e offrire nuovi corsi di studio da parte di quelle che già ci sono. Non so se questo possa essere un bene o un male, però noto che le critiche al sistema universitario negli ultimi anni siano state di eccessiva offerta e fantasia nell’offerta.

L’accreditamento potrebbe poi comprendere un voto (un rating) per l’Università, e quindi stimolare ciascuna Università a cercare di conquistare – per esempio – la “tripla A”.

Vediamo la cosa da parte di chi deve assumere. Parliamoci chiaro, non è realistico che chi assume metta pubblicamente un vincolo sull’Università di provenienza dei candidati (“assumiamo solo da Università del Granducato”). Potrebbe invece mettere un vincolo sul rating dell’Università (“noi assumiamo solo laureati AAA”) oppure assumere solo laureati di Università accreditate.

In tutti questi casi, come già ora peraltro, se la commissione di concorso o il selezionatore vorranno esercitare la propria autonomia, potranno  scegliere di attribuire al rating il valore che vogliono, oppure giudicare solo in base alle prove, al curriculum o al colloquio. Se invece ci saranno norme che obbligano a usare il rating nella selezione, di nuovo avremo un’operazione in senso dirigista, invece che liberale.

Mi pare che i proponenti dell’abolizione del valore legale del titolo di studio abbiano un atteggiamento liberale e puntino a un cambio di mentalità: che piano piano il rating delle Università sia assimilato come criterio di selezione, e che contemporaneamente le Università cerchino di acquisire il rating più alto. Puntano in realtà ad abbattere il valore legale del titolo non perché sia necessario, ma perché sono convinti che altrimenti nessuno guarderà al rating.

Insomma, a me pare che non sia il caso di avere opinioni perentorie sulla questione del valore legale del titolo di studio, perché tutto dipende da se e come sarà dispiegato il meccanismo di accreditamento. A seconda dei casi, il risultato può essere gattopardesco, dirigista, liberale, o liberatutti. Guardandomi in giro, scommetterei sul gattopardo.

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Prepararsi: tipo di laurea e reddito

C’è qui un bella serie di dati sul rapporto tra tipo di “laurea” e reddito. Ho copiato la tabella in fondo al post.

Si riferiscono agli Stati Uniti nel 2010 e mostrano per ogni titolo di studio undergraduate (più o meno la nostra laurea triennale) qual è la percentuale di coloro che hanno un reddito nel primo percentile (reddito totale della famiglia maggiore di 380 mila dollari l’anno).

Attenzione, si parla di famiglie, non individui; e reddito dichiarato annuo, non patrimonio totale. Vuol dire che ci sono anche i titoli di studio posseduti da persone che magari guadagnano poco ma si sono sposate con qualcuno che guadagna molto. E che non ci sono coloro che hanno patrimonio e rendite ma non un lavoro.

Lo spaccato del top 1% mi piace perché credo che dia una buona approssimazione della classe dirigente del paese.

Andiamo alla figura: la prima colonna indica il tipo di titolo (major), la seconda il numero totale, la terza quanti del totale sono finiti nel top 1%, la quarta quanti sono coloro nel top 1% con quel titolo. La terza colonna è la quindi più importante.

Un’avvertenza: il titolo di studio undergraduate ha una correlazione spesso debole con la professione. Per esempio un medico ha fatto la Medical School ma può avere un titolo undergrad in Health, o Biology, Physiology, perché non e’ richiesto un titolo specifico. Così chi va alla Law School spesso ha un major umanistico o nelle scienze sociali. Infine, chi segue una carriera manageriale o nella consulenza fa spesso un MBA biennale dopo un titolo undergrad di tipo economico o tecnico/scientifico.

Si vede che il primo titolo di studio universitario conta poco, e che in realtà poi c’è tempo per scegliere una specializzazione e una professione come medico, legale, e in generale manager d’azienda, dove si concentra l’1% (bellissima infografica del NYTimes qui).

Invece mi preoccupano i laureati in discipline scientifiche, inclusi gli ingegneri. Anche negli Stati Uniti, dove tipicamente sono più coccolati che qui. Per gli ingegneri la correlazione tra professione e major è alta. Tipicamente prendono un titolo magistrale (master) in Ingegneria coloro che hanno un major in Ingegneria, e in misura minore in Fisica o Matematica. Nella lista c’è solo Chemical Engineering, anche perché sono state scelte solo discipline con almeno 50000 laureati.

Ho preso i dati completi e ho estratto la posizione di tutti i major in Ingegneria. È l’ultima figura di questo post.  Electrical Engineering sta a 3.4%, Mechanical Engineering al 2.8%, Civil Engineering al 3.2%. Computer Science (non è nella figura) al 2.3%.  Gli altri dati corrispondono a numeri piccoli e quindi non sono confrontabili.

Delle altre materie scientifiche, Fisica corrisponde al 4.1% e Matematica al 3.9%.

Con questi numeri, si capisce perché negli Stati Uniti le lauree in materie scientifiche e tecniche siano scelte sopratutto da immigrati: la probabilità di finire nel top 1% dei redditi è da due a tre volte maggiore se scegli un major di tipo medico o bio, due volte maggiore se scegli un major in economia, una volta e mezzo se scegli un major in scienze politiche o del governo.

Attenzione, i numeri nascondono altri ostacoli morbidi, per così dire, all’accesso a certe carriere. Però fanno riflettere, perché sono connessi alla globalizzazione, al calo della manifattura e alla perdità di capacità di produrre “tradables”, beni commerciabili a distanza. Anche su questo punto voglio insistere più avanti.

In Italia e in Europa la questione non è proprio uguale. Tradizionalmente molte posizioni manageriali in aziende sono coperte da ingegneri. Inoltre in Italia laureati sono ancora pochi rispetto alla popolazione generale (13% nel 2010 in italia contro un 30% negli Stati Uniti e un 24.2 nella EC a 12 paesi) e molti nel top 1% non hanno la laurea (per esempio, i politici di successo senza laurea sono tanti e compensano il fatto che scienze politiche dia in Italia un minore accesso al top 1% rispetto agli Stati Uniti).

L’altra cosa impressionante è l’handicap a cui sono soggetti in Italia i laureati in discipline umanistiche, rispetto a laureati in discipline economiche e giuridiche. Non c’è nessun motivo intrinseco per cui le cose debbano stare così. Ma sarà argomento di un altro post.

Undergraduate Degree Total % Who Are
1 Percenters
Share of All
1 Percenters
Health and Medical Preparatory Programs 142,345 11.8% 0.9%
Economics 1,237,863 8.2% 5.4%
Biochemical Sciences 193,769 7.2% 0.7%
Zoology 159,935 6.9% 0.6%
Biology 1,864,666 6.7% 6.6%
International Relations 146,781 6.7% 0.5%
Political Science and Government 1,427,224 6.2% 4.7%
Physiology 98,181 6.0% 0.3%
Art History and Criticism 137,357 5.9% 0.4%
Chemistry 780,783 5.7% 2.4%
Molecular Biology 64,951 5.6% 0.2%
Area, Ethnic and Civilization Studies 184,906 5.2% 0.5%
Finance 1,071,812 4.8% 2.7%
History 1,351,368 4.7% 3.3%
Business Economics 108,146 4.6% 0.3%
Miscellaneous Psychology 61,257 4.3% 0.1%
Philosophy and Religious Studies 448,095 4.3% 1.0%
Microbiology 147,954 4.2% 0.3%
Chemical Engineering 347,959 4.1% 0.8%
Physics 346,455 4.1% 0.7%
Pharmacy, Pharmaceutical Sciences and Administration 334,016 3.9% 0.7%
Accounting 2,296,601 3.9% 4.7%
Mathematics 840,137 3.9% 1.7%
English Language and Literature 1,938,988 3.8% 3.8%
Miscellaneous Biology 52,895 3.7% 0.1%

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Il valore (corretto) di Facebook

Nell’Amaca di Repubblica del 3 febbraio Michele Serra ci spiega il significato profondo di Facebook e quanto Facebook guadagni con le vite di tutti. Citando il commento in prima pagina di Zucconi del giorno precedente, fa il conto: 80 miliardi di valore probabile in borsa, 800 milioni di persone, fa solo dieci centesimi a persona. Le foto, i motti, i post di ogni persona, solo dieci centesimi.

Però risultato della divisione è 100 dollari, non dieci centesimi. Tre zeri di differenza. il centomila per cento in più. Il valore delle cose conta. Più del significato, per differenze così grandi. Tutti capiscono che se il debito pubblico italiano fosse 30 euro a persona, invece di trentamila, sarebbe un problema di valore e significato diverso.

Il valore è di Facebook è alto per l’IPO. 100 dollari a utente sono tanti. Tanti per il modello di pubblicità su misura, anche con il margine enorme che hanno. Nel medio termine, poiché la popolazione del pianeta è finita, dovranno estrarre qualche dollaro di utile a utente per tenere quella quotazione. Non vedo tante possibilità che la quotazione possa salire di multipli, come hanno fatto Amazon e Google in passato. Se va proprio bene un fattore 2. Ma se va male può benissimo andare a 10 dollari a utente. Il rischio in basso supera quello in alto.

Certo, a 10 centesimi a utente sarebbe stato un affare.

p.s. Il post è stato modificato il 7 febbraio, aggiungendo il link all’amaca di Michele Serra, l’immagine (presa da qui), e rimuovendo l’incipit spocchioso.

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Google, questo sembra stalking

 

Tra ieri sera e stamani ho visto ThisWeekInStartups, ho visto un video di Tiziano Ferro su YouTube, ho letto il NYTimes online.

Tutte le volte, è apparsa la pubblicità – sul video o in un banner – dell’outlet online di Petit Bateau. Alcuni fotogrammi sono qui sopra e sotto. Non è una coincidenza, è Google. Confesso, ho comprato sul sito di Petit Bateau, ci sono gli sconti ora, e mi è arrivata la conferma per posta (su gmail).

La nuova politica di privacy di Google comincia a somigliare troppo allo stalking. Non sento il bisogno che Google mi legga la posta e guardi che siti visito per scegliere che pubblicità mandarmi.

Lezione: bisogna sempre assumere che tutto quello che si fa online sia fatto in pubblico. Ok, lo sapevo già, ma è stato inquietante. Don’t do evil.

p.s. oggi usando il browser ho visto altre pubblicità di petit bateau (aggiunti in basso)

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Programmare è come scrivere

C’è una tendenza palese ad una sempre maggiore specializzazione nel lavoro, ma c’è anche un flusso opposto. Alcune competenze specialistiche diventano con il tempo requisiti minimi per tutti.

C’è stato un tempo in cui scrivere definiva una professione. Essere semplicemente capaci di scrivere era un’abilità rara e preziosa, che rendeva membri di una comunità di privilegiati. Poi la capacità di base di scrivere è diventato un requisito indispensabile per tutti, mentre solo i virtuosi della scrittura ne fanno un professione specifica.

Per un periodo saper dattilografare ha definito una professione, non particolarmente privilegiata, ma comunque specializzata. Ormai non più. Saper scrivere con una tastiera – anche solo con due dita – è diventato necessario per tutti.

Per la capacità di scrivere codice – di programmare – la transizione non è ancora completa. Oltre a chi ne fa la professione primaria, un numero sempre più ampio di persone scrive codice durante il proprio lavoro, non usa semplicemente il calcolatore. Pochi ne sono consapevoli, e sento spesso dire: sono un progettista, non un informatico; sono un economista, non un programmatore; sono un avvocato, non è cosa mia.

Scrivere codice sta ormai diventando un requisito di alfabetizzazione di base. Impara, anche solo con due dita.

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Di che si parla quando si parla di valore legale della laurea

La discussione sul valore legale del titolo di studio sta prendendo una piega surreale.

Per esempio, in un articolo di oggi sul Corriere della Sera, si dice che nel Governo si parla di far cadere il vincolo sul tipo di laurea per i concorsi pubblici che la prevedono, di eliminare il voto come criterio di merito dando più spazio alle prove del concorso, e di introdurre il criterio di accreditamento per le Università (da parte di ANVUR?).

Proviamo a immaginare la situazione: se si potrà sperare di vincere un concorso solo con un titolo di un corso accreditato (per es. AAA), non ci sarà nessuna differenza rispetto al caso di titolo con valore legale – se non di norma, almeno di fatto.

Se invece l’accreditamento sarà usato dalla commissione di concorso come criterio di merito che sostituisce o integra il voto di laurea, allora sarà poca cosa, ed è facile predire una serie infinita di ricorsi.

E quindi, qual è il senso di mantenere o abolire il valore legale della laurea?

Ci sono due cose di rilievo:

Una è l’azzeramento (come limite) in tutti i concorsi del punteggio assegnato al voto di laurea. La cosa in realtà si può fare indipendentemente dal fatto che il titolo di studio abbia valore legale. Si tratta di dire che ogni commissione deve responsabilmente e autonomamente giudicare il candidato sulla base del CV, delle prove scritte e del colloquio. Come si fa già ora per tutto tranne che per la laurea. È una cosa interessante – non so se meglio o peggio di ora – ma è solo una redistribuzione dei pesi di titoli e prove, che non tocca il concetto di valore legale del titolo.

L’altra cosa, ben più importante, è che senza valore legale del titolo è più facile creare una nuova Università e/o nuovi corsi di studio . Senza sottostare alle regole, alle autorizzazioni e alle lentezze del Ministero. Si può costituire un ente, chiamarlo Università, offrire corsi di studio che portano alla “laurea”, e cercare di accreditarli. Se l’accreditamento sarà difficile come avere l’approvazione del Ministero, non cambierà molto rispetto ad ora. Se l’accreditamento sarà più semplice o non necessario, allora le cose cambieranno parecchio.

Di questo si parla in realtà quando si discute di valore legale del titolo di studio: rendere più semplice far nascere nuove Università e nuovi corsi di studio.

Non è facile decidere se sia bene o male, ma certo conviene capire cosa sia veramente in ballo.

 

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Futures can be invented

Leggo oggi su ilpost.it e in molti tweet una citazione attribuita a Peter Drucker: “Il miglior modo per prevedere il futuro è crearlo”. La citazione che io ricordavo era di Alan Kay, con “inventarlo” al posto di “crearlo”. Ho letto molto Drucker ma non sono stato in grado di trovare la citazione su uno dei suoi libri.

Invece, con l’aiuto di Wikiquote e di Google books ne ho trovata una del fisico Dennis Gabor, in un libro del 1963: “Inventing the future”. L’immagine in alto è da pagina 207 dell’edizione Knopf del 1964: “The future cannot be predicted, but futures can be invented”. È al passivo, ma il significato è quello. La frase di Kay e’ successiva (1971). Qualcuno riesce a trovare qualcosa di Drucker precedente? La aggiudichiamo?

p.s. Per chi vuole ritrovare la frase su google books in link è questo

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Iniziativa

Questo e’ il post del mio intervento a Prossima Fermata Pisa, 30 aprile 2011:

C’e’ pessimismo in Europa, negli Stati Uniti e ovviamente in Italia. Ben fotografato dal Barometro Gallup di dicembre 2010. Tutti avvertiamo che c’e’ un ciclo che si chiude, cominciato con l’ultimo dopoguerra, e non sappiamo quale ciclo si apre.

Da un punto di vista molto privato, il mondo funzionava cosi’: tu cercavi di studiare quanto piu’ possibile, quanto la tua famiglia, le tue capacita’ ed eventuali sostegni ti consentivano; poi ti facevi assumere da un’impresa o vincevi un concorso per il pubblico impiego adeguato alla tua istruzione, o ti introducevi in una professione liberale, nell’artigianato o nel commercio. La’ lavoravi e facevi carriera fino alla pensione, nel frattempo mettendo su famiglia e facendo seguire lo stesso percorso ai figli, magari facendoli studiare un po’ di piu’ e meglio. E cosi’ via.

C’erano molte variazioni sul tema: eri donna e lavoravi solo a casa, oppure no; eri del sud o della provincia e quindi dovevi emigrare, oppure no; andava meglio del previsto e salivi un paio di gradini nella scala sociale, oppure no.

Insomma, te la cavavi con un minimo di iniziativa. Bastava obbedire alle regole e metterci piu’ o meno impegno.

Quel mondo sta svanendo, gia’ da un po’. Non per tutti e nello stesso tempo: ci sono i piu’ fortunati che non se ne accorgono nemmeno, molti altri invece hanno gia’ subito gli effetti della cosa. E accusano il colpo il doppio, perche’ le loro aspettative sono piu’ alte dei padri.

Pero’ illudersi che tutto possa tornare come prima, e’ inutile e dannoso.

Non sappiamo esattamente cosa viene dopo. Sappiamo alcune cose. Sappiamo che – come sempre – le tecnologie fanno sparire e rinascere interi settori dell’economia, ma che ad ogni ciclo sono richiesti meno addetti. Sappiamo che ormai la competizione internazionale avviene in una pianura aperta, e che le tecnologie piu’ avanzate sono a disposizione di paesi con cui e’ inutile competere sulla base dei costi. Sappiamo che dobbiamo sostenere una popolazione anziana crescente e con alte aspettative di qualita’ e di durata della vita.

Ma sappiamo anche che il mondo non e’ mai stato migliore di oggi. Negli ultimi dieci anni centinaia di milioni di persone sono uscite dalla poverta’ piu’ nera. Non abbiamo mai avuto un aspettativa di vita sana cosi’ lunga. Il singolo individuo non ha mai avuto tanto potere, grazie alla leva che le tecnologie e la rete offrono. Il pessimismo deriva dalla nostalgia del mondo che era e dall’incertezza.

Ora non abbiamo un nuovo modello del mondo e non sappiamo cosa funzionera’. In questi casi dobbiamo procedere per tentativi.

Per questo motivo, le persone piu’ preziose sono ora quelle capaci di prendere l’iniziativa, quelle che fanno nascere cose nuove, nel piu’ piccolo e nel piu’ grande, nell’impresa e nelle professioni, nell’universita’ e nella ricerca, nel sociale e nella politica, nelle arti. Che provano a ripetizione, finche’ non trovano quello che funziona. Studiare, obbedire alle regole e impegnarsi non basta piu’.

Ecco, io credo che dobbiamo incoraggiare e sostenere coloro che prendono l’iniziativa. Il meglio che possiamo fare e’ non sopprimere questo tratto umanissimo nelle scuole e nelle universita’. Coltivarlo, se ci riesce, sebbene sappia quanto poco siamo attrezzati. Dobbiamo cercare di incentivare gli “iniziatori” con il riconoscimento sociale e politico. Dobbiamo soprattutto rimuovere ostacoli burocratici e normativi, i mille steccati e fortini, e liberare risorse che sono adesso impegnate per far durare un po’ di piu’ il mondo che fu e che non sara’ piu’.

 

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Borse di studio per tesi di laurea

Sono state bandite dal Comune di Livorno tre borse di studio per stage particolarmente adatte allo svolgimento di tesi di laurea specialistica presso il centro SEED (Smart Energy-Efficient Design) dell’Universita’ di Pisa, presso il Polo Universitario di Logistica in Villa Letizia, Via dei Pensieri 60, Livorno.

Sono 3 borse di 2540 EUR destinate a laureati triennali e laureandi specialistici in Ingegneria Elettronica, Informatica, delle Telecomunicazioni e Automatica; Fisica; Scienze dell’Informazione.

I temi delle attivita’ sono specificati nel bando (link in basso). Per maggiori informazioni basta scrivermi. Attenzione alla scadenza (12 febbraio 2011).

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